TeknoFilm - CD – GIOVANNI PAOLO II - INTERVISTA SULLA STORIA di Jas Gavronski (2011) - REPUBBLICA
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Product Details
Marca:
REPUBBLICA
Tipologia:
Edicola
Condizioni:
Come nuovo
Regista:
A.A.V.V.
Anno:
2011
Genere:
Documentario
Era la seconda volta che sedevo a un tavolo da pranzo di fronte a Giovanni Paolo II con il microfono nero che risaltava sulla tovaglia bianca. La prima cena si concluse per me tragicamente. Dopo una serata trascorsa a discutere di tutti i temi di attualità politica che dette modo al Santo Padre di esprimere giudizi anche sulle personalità attive sulla scena del momento, tornai a casa ansioso di «sbobinare» l’intervista, di trascriverla dal nastro su carta. Visto che la nostra conversazione durò quasi due ore passai tutta la notte a fare questo lavoro assaporando di frase in frase le reazioni che le parole del Papa avrebbero provocato nel mondo alla pubblicazione di questo «scoop». Ma alle 7.30 del mattino mi chiamò il segretario del Pontefice dicendomi che Giovanni Paolo II avrebbe preferito che la nostra conversazione della sera prima rimanesse privata. Per un giornalista non ci poteva essere delusione maggiore, anche se, cercando di mettermi nei suoi panni, capivo le ragioni e le preoccupazioni del Papa, che, non abituato alle interviste, (era la prima del suo pontificato) probabilmente aveva dimenticato che c'era quel microfono in mezzo. Ma adesso iniziava la cena riparatoria di quel torto che avevo subito. Mi aveva chiamato la sera prima il segretario del Papa chiedendomi: «E’ libero domani sera? Il Santo Padre vorrebbe invitarla a cena», in un tono affabile che non avrebbe escluso una risposta sul tipo: «No purtroppo domani non posso, combiniamo un'altra volta». Ero arrivato in Vaticano puntuale alle 7.30, salutato dalle guardie svizzere nei costumi disegnati da Michelangelo, e dopo una breve attesa in un salottino apparve il pontefice che mi precedette nella modesta sala da pranzo. Dopo una corta, intensa preghiera, ci sedemmo uno di fronte all’altro, con il segretario, don Stanislao a un lato. Avevo incontrato Giovanni Paolo II altre volte, a cena senza microfono e in occasioni meno formali. Nel «palazzo» sui Colli Albani, dove a Ferragosto, ogni due anni (sono stato invitato ad assistervi due volte, nel 1989 e nel 1994) riuniva una trentina fra i più quotati filosofi, politologi e professori universitari di vari paesi. E’ così che il Papa concepiva le sue vacanze, sempre alla ricerca, attraverso letture e conversazioni, di stimoli intellettuali. Nell’ampia sala rettangolare erano stati allineati, a ridosso delle quattro pareti, una serie ininterrotta di tavoli con nel mezzo un grande vuoto riempito da tre ventilatori bianchi che contribuivano a smuovere l’aria filtrata dalle finestre.Il Papa, come unico privilegio, sedeva ad un tavolo un po’ separato dagli altri, nell’angolo vicino alla porta, da cui due volte al giorno, mattina e pomeriggio, appariva con passo lento. E non fosse stato per la veste bianca e per il fatto che quando entrava tutti si alzavano brevemente in piedi, si sarebbe potuto scambiarlo per uno dei relatori. Credo di essere stato l’unico a osservarlo con attenzione «da esterno», gli altri seguivano i lavori come quelli di un qualsiasi convegno, per nulla imbarazzati di trovarsi e di parlare al cospetto di un Pontefice. Al termine di una sessione mi sono avvicinato a Giovanni Paolo II e gli ho chiesto cosa pensasse dei numerosi libri usciti o che stavano per uscire sulla sua persona: dopo alcuni commenti concluse il suo ragionamento dicendo: «Credo si scriva troppo su di me». Avevamo ricevuto Giovanni Paolo II, mia madre, i miei fratelli e sorelle e io, a casa nostra a Pollone, nel biellese. Venne per pregare insieme a noi sulla tomba di mio zio Pier Giorgio Frassati, che ancora non aveva beatificato e di cui era grande ammiratore. Atterrò con l’elicottero sul prato vicino a casa, e nel piccolo paese fu grande festa. Lo avevo conosciuto brevemente in Polonia, quando era ancora vescovo e poi cardinale, e nulla lasciava supporre cosa sarebbe diventato dopo. Ma ora stava per iniziare, con Giovanni Paolo II, un nuovo percorso, la registrazione di una intervista per «La Stampa» che sarebbe poi apparsa su tutti i giornali del mondo. Seduti a tavola, cominciammo a parlare in polacco, poi, quando accesi il registratore passammo all’italiano. D’un tratto, a metà cena, squillò il telefono nella stanza vicina. Fu l’unica interruzione, l’unica intrusione del mondo esterno nella quiete di quella sera. Il Santo Padre non prestò attenzione a quel trillo, ma io, in quei pochi secondi, immaginai tutte le possibili emergenze che avrebbero potuto richiedere un suo intervento immediato. Continuai a porre domande, ad ascoltarlo, ad osservarlo. Più tardi, rileggendo l’intervista, mi resi conto di quanto quel Papa arricchiva la conversazione con sfumature della voce, nei toni, nei sorrisi, che non risultavano dal testo scritto. Per parlare di sé talvolta usava la prima persona, talvolta si definiva «il Papa», ma né nel primo caso appariva colloquiale né nel secondo presuntuoso. «La sua intervista vale tre encicliche - mi disse poi un prelato vicino a Giovanni Paolo II - perché a differenza dei documenti ufficiali tutti l’hanno letta e perché esprime il vero pensiero del Papa». E' forse il più bel complimento che abbia mai ricevuto per il mio lavoro, ma il merito è tutto di Giovanni Paolo II.
Era la seconda volta che sedevo a un tavolo da pranzo di fronte a Giovanni Paolo II con il microfono nero che risaltava sulla tovaglia bianca. La prima cena si concluse per me tragicamente. Dopo una serata trascorsa a discutere di tutti i temi di attualità politica che dette modo al Santo Padre di esprimere giudizi anche sulle personalità attive sulla scena del momento, tornai a casa ansioso di «sbobinare» l’intervista, di trascriverla dal nastro su carta. Visto che la nostra conversazione durò quasi due ore passai tutta la notte a fare questo lavoro assaporando di frase in frase le reazioni che le parole del Papa avrebbero provocato nel mondo alla pubblicazione di questo «scoop». Ma alle 7.30 del mattino mi chiamò il segretario del Pontefice dicendomi che Giovanni Paolo II avrebbe preferito che la nostra conversazione della sera prima rimanesse privata. Per un giornalista non ci poteva essere delusione maggiore, anche se, cercando di mettermi nei suoi panni, capivo le ragioni e le preoccupazioni del Papa, che, non abituato alle interviste, (era la prima del suo pontificato) probabilmente aveva dimenticato che c'era quel microfono in mezzo. Ma adesso iniziava la cena riparatoria di quel torto che avevo subito. Mi aveva chiamato la sera prima il segretario del Papa chiedendomi: «E’ libero domani sera? Il Santo Padre vorrebbe invitarla a cena», in un tono affabile che non avrebbe escluso una risposta sul tipo: «No purtroppo domani non posso, combiniamo un'altra volta». Ero arrivato in Vaticano puntuale alle 7.30, salutato dalle guardie svizzere nei costumi disegnati da Michelangelo, e dopo una breve attesa in un salottino apparve il pontefice che mi precedette nella modesta sala da pranzo. Dopo una corta, intensa preghiera, ci sedemmo uno di fronte all’altro, con il segretario, don Stanislao a un lato. Avevo incontrato Giovanni Paolo II altre volte, a cena senza microfono e in occasioni meno formali. Nel «palazzo» sui Colli Albani, dove a Ferragosto, ogni due anni (sono stato invitato ad assistervi due volte, nel 1989 e nel 1994) riuniva una trentina fra i più quotati filosofi, politologi e professori universitari di vari paesi. E’ così che il Papa concepiva le sue vacanze, sempre alla ricerca, attraverso letture e conversazioni, di stimoli intellettuali. Nell’ampia sala rettangolare erano stati allineati, a ridosso delle quattro pareti, una serie ininterrotta di tavoli con nel mezzo un grande vuoto riempito da tre ventilatori bianchi che contribuivano a smuovere l’aria filtrata dalle finestre.Il Papa, come unico privilegio, sedeva ad un tavolo un po’ separato dagli altri, nell’angolo vicino alla porta, da cui due volte al giorno, mattina e pomeriggio, appariva con passo lento. E non fosse stato per la veste bianca e per il fatto che quando entrava tutti si alzavano brevemente in piedi, si sarebbe potuto scambiarlo per uno dei relatori. Credo di essere stato l’unico a osservarlo con attenzione «da esterno», gli altri seguivano i lavori come quelli di un qualsiasi convegno, per nulla imbarazzati di trovarsi e di parlare al cospetto di un Pontefice. Al termine di una sessione mi sono avvicinato a Giovanni Paolo II e gli ho chiesto cosa pensasse dei numerosi libri usciti o che stavano per uscire sulla sua persona: dopo alcuni commenti concluse il suo ragionamento dicendo: «Credo si scriva troppo su di me». Avevamo ricevuto Giovanni Paolo II, mia madre, i miei fratelli e sorelle e io, a casa nostra a Pollone, nel biellese. Venne per pregare insieme a noi sulla tomba di mio zio Pier Giorgio Frassati, che ancora non aveva beatificato e di cui era grande ammiratore. Atterrò con l’elicottero sul prato vicino a casa, e nel piccolo paese fu grande festa. Lo avevo conosciuto brevemente in Polonia, quando era ancora vescovo e poi cardinale, e nulla lasciava supporre cosa sarebbe diventato dopo. Ma ora stava per iniziare, con Giovanni Paolo II, un nuovo percorso, la registrazione di una intervista per «La Stampa» che sarebbe poi apparsa su tutti i giornali del mondo. Seduti a tavola, cominciammo a parlare in polacco, poi, quando accesi il registratore passammo all’italiano. D’un tratto, a metà cena, squillò il telefono nella stanza vicina. Fu l’unica interruzione, l’unica intrusione del mondo esterno nella quiete di quella sera. Il Santo Padre non prestò attenzione a quel trillo, ma io, in quei pochi secondi, immaginai tutte le possibili emergenze che avrebbero potuto richiedere un suo intervento immediato. Continuai a porre domande, ad ascoltarlo, ad osservarlo. Più tardi, rileggendo l’intervista, mi resi conto di quanto quel Papa arricchiva la conversazione con sfumature della voce, nei toni, nei sorrisi, che non risultavano dal testo scritto. Per parlare di sé talvolta usava la prima persona, talvolta si definiva «il Papa», ma né nel primo caso appariva colloquiale né nel secondo presuntuoso. «La sua intervista vale tre encicliche - mi disse poi un prelato vicino a Giovanni Paolo II - perché a differenza dei documenti ufficiali tutti l’hanno letta e perché esprime il vero pensiero del Papa». E' forse il più bel complimento che abbia mai ricevuto per il mio lavoro, ma il merito è tutto di Giovanni Paolo II.
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