TeknoFilm - 2 LP (Ediz. Tir. Lim. [ORO] Numerata - Copia 0320/2000) - LITFIBA 17 RE (1986) - ATLANTIC
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Product Details
Marca:
ATLANTIC
Tipologia:
Versione vendita
Condizioni:
Nuovo
Regista:
A.A.V.V.
Anno:
1986
Genere:
Musicale
Immaginate un decennio, o una buona parte di esso, in cui il presidente degli Stati Uniti è Reagan, quello inglese la Thatcher e quello italiano Craxi; come se non bastasse, in Germania comanda un democristiano e Israele è a guida destra nazionalista: come direbbe Sordi, posso esse’ ancora un po’ incazzato? Domanda retorica che in verità avrebbe senso se oggi non stessimo peggio di allora, e domanda che probabilmente i Litfiba è da quel dì che non si fanno più. Però nel 1986 (e per qualche altro anno a venire) hai voglia se erano incazzati, del resto non potevano che uscire (originariamente) per un’etichetta che si chiamava I.R.A..
La Trilogia del potere di Piero Pelù e soci ha in 17 Re, pubblicato il 13 dicembre 1986, il suo apogeo. Diciassette re, e in copertina il cuore di quello più importante, il Re dei re, ovvero Gesù Cristo. Ma altro che spirito natalizio e religioso: la seconda prova in studio della band fiorentina è un vero e proprio vomitamento di bile, una prolungata, cagnesca, malata, fracica espettorazione di catarro e bitume espressa in sedici frecciate frulla-budella, un’opera monumentale, enciclopedica, che – per chi scrive – può essere tranquillamente rubricata a più importante disco rock italiano degli anni ’80, quello che meglio li rappresenta per negazione, proprio in quanto ne incarna lo spirito disallineato, maleducato, insolente e zozzo rispetto all’edulcorata ideologia consumistico/edonistica, e quindi conformistica e totalizzante, modellata soprattutto dalla TV.
Non c’è un momento di stanca, in 17 Re, nonostante la puzza sia di torbido e ristagno, di carne marcescente al sole, di fracico appunto; perché è tutto in movimento, zingaro, secondo la natura apolide di chi vaga all’infinito piantando le tende giusto il tempo di mettere ad asciugare gli stracci lezzosi e poi via verso dove gli gira, in un continuum itinerante, disturbato, di chi è cittadino del mondo ma cittadino alieno, che sta bene ovunque e non sta bene da nessuna parte, che dorme sui serci e si lava se e quando trova una fontanella.
Il sophomore dei Litfiba è un pozzo d’acqua maleodorante ma pieno di perle sul fondo, è intriso di anarchia e nichilismo, è antiestetico e se ne fregia, è militante nella sua disobbedienza, è contro natura nell’accezione ungarettiana, perché lo stesso «atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura». E qui di civiltà (al plurale) ce n’è a bizzeffe: occidente e oriente, nord e sud, consumismo e Terzo mondo, cultura cristiana e cultura islamica, anglosassone e latina. Lo scontro è dirompente, straziante, un crack reso in musica dalle tensioni interne al gruppo che nel giro di un paio d’anni sfoceranno nella clamorosa scissione a cui seguirà un’incarnazione del marchio molto più addomesticata alle logiche dell’industria musicale.
È ancora di impianto new wave, il nuovo corso dei discoli gigliati con lo studio di registrazione nella mitica via de’ Bardi, ma sempre più la new wave dei Nostri si fa mondialista e sempre meno loro somigliano ai Joy Division o ai primissimi U2. L’abbiamo detto, siamo nel 1986, in piena guerra Iran-Iraq, con l’America (e quando ti sbagli?) a sostenere Saddam Hussein contro l’Impero del Male, e con Gheddafi che ad aprile bombarda Lampedusa. Undici anni prima Pasolini è stato ucciso e guarda caso stava scrivendo un romanzo che si chiamava Petrolio. Ecco allora Oro Nero, uno dei passaggi più ispirati e incazzati del lotto, che dà la misura di quanto i Litfiba non si guardino l’ombelico (del mondo) ma mettano il naso fuori fino a toccare la sponda opposta dell’Adriatico e intrufolarsi nell’entroterra assorbendo influssi balcanici, oppure discendere il Tirreno ammaliati da sirene mediorientali, o addirittura attraversare l’Atlantico per addentrarsi tra selve e altipiani latinoamericani, a loro modo anticipando il melting pot tanto di moda nei Novanta.
Migliorano tutti, i singoli componenti del sestetto (se non si considera il contributo addizionale di Daniele Trambusti alle percussioni), che già in Desaparecido avevano mostrato le premesse di una maturazione prossima a completarsi. Pelù aggiunge raffinatezza, scaltrezza ma soprattutto versatilità alla cifra combat che l’ha fin qui contraddistinto: ora è più sexy, confidenziale, a tratti dolce, a tratti acidulo, e si cala perfettamente nelle canzoni controllandosi come l’amante che ha in mano i tempi del coito; ma poi svolta con estrema naturalezza verso altri registri arrivando perfino a fare il Cane, quando non il muezzin, scivolando con la voce come con una tavola da surf sull’onda araba. I testi, poi.
Il frontman tocca picchi di poetica che hanno del sublime in passaggi come «Potrei vivere nel sogno di volare / Lanciandomi a cavallo delle scie / Alzandomi come sabbia» oppure «Il sogno traveste di luce ogni cosa vivente / E non toglie la paura dei fantasmi». Ma fa un ulteriore salto di qualità pure Ringo De Palma: il suo drumming adesso è meno lineare, secco, militaresco e molto più “melodico”, arzigogolato, pieno di cambi di ritmo, tempi dispari e giocate sopraffine ancorché spesso non appariscenti; in linea con l’album, del resto, perché 17 Re è tutto così: una sorpresa dietro l’altra, quando meno te l’aspetti sbuca fuori la stilettata sghemba che ti infilza come uno spiedino da polmone sinistro a fegato. Pensi che un pezzo vada in una direzione e all’improvviso fa un testacoda, dà una sgasata lasciandosi dietro un nuvolone di fumo nero e sull’asfalto sgommate anch’esse color pece (il produttore del disco di cognome fa Pirelli), slalomeggia tra i pali della luce e fa pinnate sulle ruote laterali, incurante dei semafori e accelerando quando dovrebbe rallentare e viceversa. Un vortice emotivo e sensoriale senza soluzione di continuità, niente è scontato, manco la morte, che anzi qui è esorcizzata a mezzo danze pazze intorno al fuoco (un po’ come la Eva di Tziganata, ricordate?).
E al fuoco c’è un sacco di carne. Non otto-tracce-otto come nel lavoro d’esordio ma addirittura due volte tante (l’album in effetti fu pubblicato inizialmente come doppio) e tutte inzeppate di odori, salse e ripieni vari. 17 Re è un maquillage, è cubista, tanti pezzi diversi attaccati insieme. C’è Café, Mexcal e Rosita, divertissement arty/funk imbottito di tastiere che neanche gli XTC, Sulla Terra che se la spassa abbozzando addirittura passi reggae, Tango che rivede i passi della danza argentina in chiave tesa e sinistra, e Vendette dagli intarsi spagnoleggianti. Ma la strada maestra del post-punk mica è abbandonata, vedi alla voce Resta e Re del Silenzio. I Litfiba adesso lavorano per addizione senza però nulla perdere dell’afflato originario. Alle linee squadrate e razionali di Desaparecido sovrappongono bizantinismi, barocchismi, arabismi ed esotismi in generale, non solo aggiungendo elementi della cultura popolare ma assorbendoli in toto, ché le culture particolari – diceva lo stesso Pasolini – sono transnazionali.
Così troviamo fisarmoniche, tamburelli, clavicordi e violini perfettamente amalgamati con la cifra ital-rock più classica che – ripetiamo – non smette di guardare al Nord Europa. Le tensioni di cui sopra riguardano soprattutto lo stile musicale (ma ci sarebbero anche cosucce tipo dipendenze da droga e alcol) e la band dopo il terzo capitolo in studio finirà (per poi ricomporsi in parte) come i condannati allo squarciamento nella Roma papalina sotto le spinte centrifughe dei suoi membri: da una parte quella verso le lugubri atmosfere dei Tuxedomoon vertenti soprattutto su basso e tastiere, da un’altra quella verso la solarità mediterranea, da un’altra ancora quella verso l’hard-rock più ledzeppeliniano e in ultimo quella verso il paradiso di Allah.
Non che i Litfiba di metà Ottanta disdegnino però il pop, anzi tutt’altro, e i germi della svolta degli anni ’90 si colgono già nella fantastica Apapaia, ancora oggi un cavallo di battaglia dell’ensemble (da più di trent’anni ridotto a duo), anche se poi il gioiello nascosto (ma mica tanto) è quella meraviglia di Pierrot e La Luna, dolcissima elegia notturna dalle arie scorbutiche e conturbanti. «La prossima l’abbiamo suonata pochissimo dal vivo anche negli anni Ottanta, è proprio una chicca», dirà Pelù introducendo la versione della canzone presente nel provvidenziale Trilogia 1983-1989 live 2013.
Strana poi, tanta parsimonia, perché in fondo il pezzo è solo il quinto in scaletta di 17 Re e – rispolverando un vecchio luogo comune in fatto di dischi rock – una volta le cartucce migliori le band usavano spararle nella prima metà. Ma poi, come si fa a scegliere una migliore in un album del genere. Si pensi che dalle magnifiche sedici resta esclusa l’epicissima e squassante Transea, tanto per dire, “sparata” appunto nell’EP omonimo dato alle stampe pochi mesi prima del disco.
In ogni caso, poco male perché siamo ampiamente ripagati anche dall’alcolica e bukowskiana Gira Nel Mio Cerchio, dalla rapsodica Come Un Dio e dalla meravigliosa, maestosa, fantasmagorica chiusura che è quel pamphlet antimilitarista di Ferito, il quale a un certo punto dice: «Grande capo bianco vuole carne da cannone / E che sia bello morire insieme». Vedi che poi il mondo del 1986 non è così diverso da quello del 2022 e anzi forse gli anni ’80 erano solo un test per prepararci al XXI secolo.
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